(Questo testo è stato pubblicato sul sito internet dell’Accademia mediterranea dell’attore, accademiama.it, aprile 2016)
Diario della residenza artistica internazionale con il Teatro nazionale macedone di Skopje, Novoli-Lecce, 17-23 marzo 2016. Sulle tracce dell’eroina disperata, un seminario sulla complessità dell’umano
Cercando Medea
Ha perduto le perle dai capelli. Sul viso, solchi profondi segnano il percorso compiuto dal dolore. Ma venature di cretto hanno cicatrizzato le lacrime: ormai gli occhi sono asciutti, e fermi, davanti al proprio tempo futuro. Medea è più che mai dentro, eppure è già altrove dalla propria disperazione. Sono già trascorsi dieci anni nei suoi occhi, una vita intera, più vite, il destino di più generazioni che mai saranno. È solo un attimo, prendere il pugnale. La determinazione della morte è un’energia fulminea e senza peso. Eppure è un tempo gonfio, il suo, immenso, quanto la vita che porta con sé,indietro e in avanti, quanto l’amore dato fino allo sperpero, e che in qualche modo, miserevole, disperato, continua a darsi. Pretendere che sia reso indietro l’amore non è forse anch’esso, ancora, segno d’amore?
Medea non è solo donna dalle energie assolute, è donna dalle energie complesse.
Porci sulle sue tracce è stato un seminario sulla nostra propria complessità di esseri umani.
“Cercando Medea” si intitolava la residenza artistica organizzata da Factory-Compagnia Transadriatica, Principio attivo teatro e Accademia mediterranea dell’attore, sei giorni di immersione totale nelle ragioni e nei sintomi di ogni tempo del patto d’amore tradito. Noi allievi di Ama, mescolati con ragazzi e ragazze che hanno risposto alla call del progetto, portandovi in consegna i propri variegati percorsi.
La sala prove delle Manifatture Knos di Lecce e il palco del Teatro comunale di Novoli sono stati lo scenario della sperimentazione. A guidarci, i professionisti del Teatro nazionale macedone di Skopje: il regista Dejan Proikovski, l’attrice Darja Rizova, l’attore, e direttore artistico di Ohrid summer festival, Georgij Jolevskj.
Il primo giorno, seduti in cerchio sulle assi del palco di Novoli, si presentano richiamando un lungo curriculum: formazione, scuola, progetti realizzati e altri da realizzare, i nostri insegnanti non si sentono giustificati al silenzio, si “dichiarano”, come per esporre le regole del gioco.
E tale è il gioco: abbiamo una direzione, ma siamo lasciati liberi di trovare il nostro modo, il nostro passo. L’attore, ci dice Georgij Jolevskj, è il cittadino di uno Stato governato dal regista di turno: la Costituzione è data, ma nei gangli della regola chi sta in scena può esercitare la propria libertà di essere.
Con questo mandato, per sei giorni cerchiamo, in noi, Medea.
Il primo passo è centripeto, richiede di guardarci negli occhi, far convergere i nostri corpi, in circolo, verso un unico punto focale. L’attore, da solo, condurrebbe una ricerca che porta al niente, l’attore da solo è niente. Chi sta in scena non è mai solo sul palco, neppure quando è solo: ogni suo gesto vive nella relazione con gli altri, attori o non attori, che abitano il Paese temporaneo del teatro,
e di questo suo essere “in presenza molteplice” deve essere certo, prima di esser lasciato solo con il proprio percorso.
Gli esercizi ci aiutano soprattutto a questo. In cerchio, ci consegniamo l’un l’altro un oggetto che ha ora pesi, ora forme diverse, un bambino o un proiettile di piombo, il gioco è lo stesso. Ci lanciamo raggi di energia, con l’ordine di non disperderli. Stiamo in uno specchio che ci vede responsabili gli uni dei movimenti degli altri. Diventiamo gli elementi e le molle di un meccanismo umano: ogni corpo muove quello di tutti, una sola sistole è in grado di far crollare l’intero sistema. Questo, ci alleniamo a temere, prima di tutto: la dispersione della musica, un palpito stonato.
Il nostro attraversamento parte da qui, e si dirige verso il territorio interno di ognuno di noi. L’attore non ha mezzi per raccontarsi, se non il proprio corpo. Per questo, veniamo allenati ad aver cura di ogni dettaglio. Trovarsi in uno spazio, in stanze diverse di una casa, fare un panino, fare un panino con i nostri corpi.
Anche la parabola di Medea si compirà nel tremore delle sue gambe, nella contorsione del suo – del nostro – volto. L’energia che solca l’esterno, tuttavia, deve scatenarsi dentro, nel territorio dell’autentico.
Sul palco non c’è più niente, solo una musica lenta che satura l’aria.
Medea non può dimenticare, dovrà vendicarsi, espone le proprie ragioni, piange, sa che dovrà uccidere, non può sottrarvisi, ma il proprio gesto le fa orrore. Si purificherà con l’acqua, inutilmente. Dopo dieci anni tornerà alla tomba dei propri bambini. Vi torneremo tutti, uno ad uno, sul palco.
In auto, nel tragitto verso il teatro, con una sigaretta lasciata spegnersi durante la pausa, e poi ancora a notte fatta, al termine della giornata di prove, scambiamo impressioni sulla tragedia di Euripide.
Per Giasone, Medea aveva attivato i propri poteri di maga: la vita dello sposo era stata protetta dal destino ineluttabile sui campi di battaglia, mentre non aveva esitato a seminare mille altri campi di morte, sul loro cammino. L’abilità assassina di Medea non ha rivali, quando è sollecitata dall’amore.
Del resto, lei è donna dalle energie assolute, la luce accecante e il buio sconfinato la attraversano. Non conosce la miseria di un focolare fioco. Per cui quale Medea, se non un’altra, una donna che Medea non sia, potrebbe mai accettare l’accordo impostole da Giasone? Barattare adesso la sposa con la concubina, con lui sposo di un’altra, lei, che aveva barattato il suo essere figlia, il suo essere innocente, il suo essere regina per poter essere la sposa di Giasone?
Quando l’atomo dell’amore si spezza, il dolore non può che trabordare al grado atomico. In fondo, le vite dei bambini non sono una questione tra lei e Giasone, ma di lei con se stessa. Non è lo sposo, no: è l’intera esistenza terrestre, che deve finire insieme all’amore finito, è il proprio destino, oltre il destino di discendenza del proprio sposo, a dover essere annientato. Medea questo lo sa, sa di non potersi liberare dalla colpa che sta per darsi, il suo è un dolore senza soluzione.
Perché Medea non è solo donna dalle energie assolute, Medea è donna dalle energie complesse.
A questo pensiamo, prima di salire sul palco.
Entrare nel flusso significa diventare campi di attraversamento. Ognuno a proprio modo, scoperchiamo vasi di Pandora, sguinzagliamo i nostri demoni. Possiamo urlare, piangere, ammutolire per un lungo tempo guardando il vuoto, stringerci, implorarci l’un l’altro, baciarci: possiamo, perché non siamo più noi, con i nostri nomi e cognomi, ma campi di attraversamento, noi come custodi di un’energia che alimenta l’umano in ogni epoca.
La nostra pelle e le esperienze che si porta dietro determinano una differenza di reazione, ed è proprio in questo spazio che si dà il teatro. Qualcuno è spietato, qualcuno è pietoso, ma c’è Medea in ognuno di noi, donne o uomini che siamo.
Alla fine di questa settimana, abbiamo negli occhi “La signorina Giulia” di Strindberg, di cui Darja Rizova e Georgij Jolevskj portano un saggio sul palco di Novoli, come saluto a tutti noi. E noi portiamo nei nostri occhi un insegnamento. Dall’esperimento con noi stessi, alla dimostrazione, fuori da noi, che un attore è davvero un campo d’attraversamento, il territorio ospite di un’energia autentica, pur essendo un territorio dal nome inventato. Ci sentiamo forse anche un po’ vuoti. Anzi: svuotati. Spossessati di noi. Ma è una perdita felice, feconda, in fondo, un po’ come quella di un parto.
Aspettando di tornare sul palco con la nostra Medea, la performance finale del primo anno.