(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, luglio 2016)
Eugenio Barba. Di ritorno nel Salento per un incontro su “Cultura, territorio e comunità”, racconta il “modello Holstebro”
«La comunità legittima il teatro»
Prima regola del teatro: guadagnarsi l’appoggio della comunità. Viso abbronzato, gli immancabili sandali ai piedi e la mano che fende l’aria in un gesto che è, già in sé, l’incarnazione stessa del teatro, il “guru” Eugenio Barba dissemina memorie e input tra il pubblico di Palazzo Grassi ad Aradeo. L’Odin Teatret non è solo la Stella del Nord del teatro sperimentale contemporaneo: è anche un modello di politica culturale nato cinquant’anni fa dalla collaborazione tra un tenace e visionario gruppo di artisti e l’Amministrazione comunale di Holstebro, cittadina della Danimarca guidata da un sindaco-postino che vedeva lontano. Il “modello Holstebro” – raccontato di recente in un documentario di Davide Barletti e Jacopo Quadri, “Il Paese dove gli alberi volano” – è stato al centro dell’incontro di domenica scorsa “Cultura, territorio e comunità”, un dialogo tra Barba e l’assessore all’Industria turistica e culturale della Regione Puglia Loredana Capone, moderato dal direttore dell’Istituto di culture mediterranee della provincia di Lecce Luigi De Luca.
L’occasione, la serata in memoria di Guido Blandini, agronomo e animatore culturale vicino ai Kantieri Koreja sin dai tempi delle prime sperimentazioni al castello Tre Masserie di Aradeo.
Una storia, anche quella, nata e cresciuta attorno alla “regola” della comunità su ispirazione del progetto di teatro sociale condotto nel ’74 dall’Odin a Carpignano Salentino. Che, a breve, potrebbe rinnovare il rapporto con Barba in un nuovo progetto diffuso tra Lecce e Bari.
Ha parlato della necessità di un’istituzione culturale di non eludere il dialogo con la politica. Come condurre questo negoziato?
«Il dialogo tra il teatro e i politici è sempre impari, poiché l’uno si trova a dover chiedere finanziamenti, l’altra a erogarli. Diventa quindi importante, per un teatro, costruirsi una forza che non sia né economica né politica, ma culturale, realizzando attività che diano prestigio e facciano guadagnare l’appoggio della comunità. Questo mette i politici nella condizione di dover ascoltare. E questo è il modo con cui l’Odin Teatret ad Holstebro – un teatro fatto da stranieri in una cittadina di abitanti danesi – è riuscita a farsi ascoltare dai politici, che addirittura ora seguono i nostri consigli sulle politiche culturali che riguardano la cittadina».
Il Teatro Valle a Roma, ma anche alcune esperienze nel Salento – l’ultima, il centro sociale Terra Rossa di Lecce – nascono con l’occupazione di spazi pubblici per la realizzazione di attività culturali. Una pratica legittima, nel complesso negoziato con le Istituzioni?
«Legittima diventa qualunque azione che si traduce in attività artistiche, culturali, sociali, che affondano le loro radici tra le gente, nella comunità. L’occupazione in sé non risolve niente, può anzi trasformarsi in un vicolo cieco se, una volta occupati i locali, non si è in grado di “costruire” la cultura, che vuol dire mettere in atto relazioni e valori e una disciplina del lavoro, un saper fare che abbia conseguenze nella comunità».
Molte esperienze come quelle richiamate finiscono con lo sgombero da parte delle Istituzioni. Che cosa ne pensa?
«È sempre il contesto che decide ciò che è legittimo. Ciò che i tedeschi chiamavano terrorismo – le azioni dei partigiani durante la seconda guerra mondiale – è diventato eroismo nei libri di storia. Il concetto di legittimità è sempre molto relativo. Per quanto mi riguarda, vi sono situazioni in cui tutta la mia simpatia va all’occupazione e altre in cui scuoto la testa e trovo la cosa velleitaria»
Esperienze teatrali che coinvolgono i migranti, come “Passo dopo passo” dei Koreja, o i detenuti, come quella di “Io ci provo”, che portata hanno sulla comunità?
«Noi dell’Odin abbiamo una relazione continua con il campo rifugiati di Holstebro e vedo con i miei occhi le conseguenze enormi che questo ha sia el processo di socializzazione e che nell’adattamento a una situazione traumatica come quella della migrazione. Lo stesso vale per il carcere: il teatro obbliga a creare nuove relazioni tra carcerati e carcerieri, perché è un corpo estraneo all’interno della disciplina del penitenziario, che fa sì che tutto venga cambiato».
Alcuni mesi fa in un’intervista a “Quotidiano” ha anticipato il suo coinvolgimento in progetto legato al Salento. A che punto è?
«È un progetto pensato insieme a Koreja, che al momento è in attesa di fondi dal Teatro pubblico pugliese. L’idea è quella di creare relazioni di scambio culturale tra la comunità dei cittadini e quella degli attori, unendo lavoro artistico e pedagogico».
Una nuova Carpignano?
«No, è molto diverso: sono diversi i tempi e sarebbe non solo difficile, ma anche estremamente noioso, ripetere il già fatto».