(Questo articolo è stato pubblicato su GenerAzioni di scritture, luglio 2015)
Intento dissacratorio, spinta eccedente: “L’ultimo trovatore”, le opere letterarie di Carmelo Bene nello sguardo di Simone Giorgino.
La poesia dietro le quinte del palco
Uomo di teatro, cinesta, istrione televisivo? No, Carmelo Bene è stato prima di tutto un poeta. È questa la tesi con cui Simone Giorgino reinterpreta la produzione del grande maestro dell’arte scenica, tanto discusso quanto – se possibile – indiscusso: L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene (Milella, 2014).
Ideologicamente de-genere, la scrittura di Bene lo è per intento dissacratorio quanto per spinta “eccedente” rispetto ai tradizionali confini di ambiti comunicativi e generi letterari. Partendo da questo assunto, Giorgino si sottrae alla tentazione di un’analisi dall’afflato universalistico, ma anche alla smania di stabilire nuove, minuziose catalogazioni laddove il Maestro aveva voluto che regnasse il caos, e concentra l’analisi sulle opere esplicitamente licenziate come “racconto”, “romanzo”, “poesia”: Nostra Signora dei Turchi, Credito italiano V.E.R.D.I., Pentesilea. Ovvero della Vulnerabile invulnerabilità e necrofilia in Achille, ‘l mal de’ fiori poema e l’inedito Leggenda.
L’autore si addentra, cioè, nella sfera “canonica” della scrittura letteraria, che tuttavia nel caso di Bene coincide anche con la zona rimasta maggiormente in ombra, quantomeno nell’analisi della critica. Effetto collaterale della straordinaria affabulazione dell’artista teatrale: quel suo teatro è stato fatto assurgere a categoria interpretativa dell’intera produzione beniana. Giorgino ribalta il paradigma: non solo allestisce la prima monografia dedicata esclusivamente alle opere letterarie di Carmelo Bene ma, con scarto ulteriore rispetto al passato, rifiuta la prospettiva che ha avallato la fagocitazione della sua galassia scrittoria nella genealogia di una “macchina attoriale”, per usare un’espressione di Piergiorgio Giacché.
Per l’autore, infatti, se proprio si vuol ricondurre l’eterogeneità eccedente di Bene a un principio fondativo, questo va cercato nella poesia. Poesia intesa come ricerca sul linguaggio, ovvero ricerca di senso nella quale il linguaggio, lungi dal rappresesentare un mero corollario espressivo, “significante”, diventa esso stesso contenuto elettivo.
Ma verso cosa tende una simile ricerca? Essa, come chiarisce Giorgino, “lavora sulla ricomposizione dell’unità, presunta e comunque perduta, fra voce e archè, cioè fra l’originario intestimoniabile e la voce che si affanna a pronunciarlo ma che, facendolo, è già inevitabilmente nella ‘differenza’, intesa come scomparsa o ritardo dall’origine”. La ricerca della voce è uno dei nodi focali su cui indugia l’analisi, a partire dal dialogo con le teorie filosofiche, linguistiche, teatrali che Carmelo Bene padroneggiava in modo eccezionale per un uomo di scena, e che l’autore dello studio mette puntualmente in luce. In particolare, il rifiuto del teatro come rappresentazione di ascendenza artaudiana (che Bene, un po’ immodestamente, riteneva di aver realizzato meglio del maestro), la teoria della “differance” di Derrida, ovvero dell’eterno scarto tra essere e testo, tra senso e segno, la destituzione della centralità del soggetto – e della lingua che dovrebbe appartenergli – da Lacan e Deleuze (con quest’ultimo Bene scriverà addirittura un saggio, Sovrapposizioni).
Se la scrittura si iscrive in una differenza sempre incolmabile con l’origine di senso da cui proviene, la “voce” è intesa allora da Bene come il soffio che permette di ricostruirne le tracce. Non è mymesis dell’origine – una simile operazione non avrebbe senso – ma ne è un analogo. Si comprende l’importanza riconosciuta alla musicalità, che permette di legare la parola a una dimensione performativa: l’unica che, seppur in una “differenza” irriducibile, tende alla vibrazione autentica del reale. Prima ancora d’essere una “scrittura per voce”, dunque (il che confermerebbe la teoria di una “attorialità” preminente) quella di Bene è “scrittura della voce”. In questo senso compare l’immagine dell’ultimo trovatore, cantore medievale della parola-musica trapiantato nel contemporaneo.
Uno studio originale, che non presta il fianco alle posizioni critiche mainstream ma, pur nel riferimento costante a quelle, si spinge più oltre, nei luoghi “meno frequentati” della produzione beniana, e soprattutto lo fa partendo da un’ottica inedita.