(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, settembre 2015)
Autori e città/3
Nel primo romanzo di Carmelo Bene la storia privata del Maestro, ospite nella casa paterna, trasfigurata nell’immagine di un assedio
Santa Cesarea tra turchi e turisti
Immobile, gli occhi fissi nello specchio, il profilo del volto precisato da un margine di sangue. Più tardi avrebbe apposto una candela ad ambo i lati – avanzo da palcoscenico o piuttosto cero da morto, chi sa. Un uomo si “non si guarda” allo specchio; intorno, un piccolo arsenale di oggetti assurdi delimita i confini di una stanza che non è una stanza, di una casa, anche quella, presa solo a pretesto, di una storia che non può essere contenuta nella dimensione canonica del “c’era una volta”. Per Carmelo Bene, quella casa era tutto fuorché la semplice ambientazione di una storia. Ne era, semmai, la “proiezione”, la sintesi perfetta tra il suo percorso di uomo e il genio d’artista, tra le tracce di un legame di sangue con il Sud e il suo rigetto.
Così, in quell’estate del 1964, la casa di Santa Cesarea Terme si accomiatò dall’immagine ordinaria di proprietà di famiglia per divenire, per tutti e per sempre, lo stra-ordinaria dimensione di “Nostra signora dei turchi”.
In quell’estate, l’attore e la compagna di allora, Lydia Mancinelli, si trovano dai Bene come ospiti in vacanza. Ma se quella di lei coincide con lunghe giornate in riva al mare, per lui significa potersi perdere, indisturbato, nel proprio delirio creativo, «a 200 metri a picco sulla scogliera», come dirà più tardi, per sedici ore al giorno. A 26 anni, dopo essere stato a teatro Caligola e Majakovskij, ha deciso che non gli basta: scriverà un romanzo. E lo farà in quella casa.
Nato a Campi Salentina, una tomba già pronta a Otranto («anche se i miei funerali intendo festeggiarli da vivo», dirà), Santa Cesarea è il terzo anello della catena che, pur tra mille contraddizioni, lo tiene sintonizzato in perfetto equilibrio tra il vuoto e l’infinito. Un Sud tanto affascinante perché “fuori di sé”, quanto deprecabile nella sua volgarità – terra di volgo, appunto, di moltitudini asfissianti, già indigeste all’altero carattere di Bene.
La marina salentina, con il suo peso specifico nel privato dell’uomo, si riversa nella penna dell’autore. L’ossessione di quei ricordi va a comporre le stanze in cui si aggira un dandy allucinato. Il risultato è una storia che esplode in maniera incontrollabile: la camera della tortura del protagonista si trasfigura nell’immagine di Otranto, nell’anno 1480. Teatri, entrambi, di un “assedio”, in cui la storia e la Storia diventano un tutt’uno.
Se la scena che apre i romanzo è quella dello specchio, nel film – presentato alla burrascosa Mostra del cinema di Venezia del ’68 – è affidato a Villa Sticchi, il «palazzo moresco» attiguo alla casa paterna, il compito di introdurre nella dimensione franta e schizoide del protagonista.
Una carrellata di riprese scomposte fa scorrere i portici della villa, consumati dal salmastro. Artificio estetico finto-islamico di fine Ottocento, la dimora è il terreno perfetto dello slittamento: «Proclamata la fine dello stato d’assedio, quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei turchi che, di tra le viole del cielo assolato, avevano ammainato le mezze lune» spiega impassibile la voce fuori campo.
Dentro, è il “fantasma” di Margherita, o «la Santa», a torturare il protagonista, perpetrando un lungo, perfido perdono non richiesto. Fuori, la sua tortura è il paese che si prepara alla festa di San Lorenzo, in un brulichio di persone comuni che lo disgusta.
Margherita, su un albero di fico, lo invita a vedere i fuochi, ma il suo pensiero è rivolto ai morti che saranno seppelliti l’indomani, nel tempo parallelo del delirio. Che si tratti di un’allucinazione è consapevole, in fondo, lo stesso protagonista, terrorizzato dalla possibilità di essere riportato in sé dalla Santa: «Così l’esercito turco, nelle mani di lei, gli diventava una triste flottiglia di lampare a fatica di mare quotidiano». Meglio pensarsi vittima dello storico assedio, piuttosto che ammettere di trovarsi in una cittadina di mare presa d’assalto dai turisti. E così, turchi e turisti si confondono per le stradine del centro, «con in mano vasetti di coccio o canne da pesca, cartate di pesce o di nespole, bambini o racchette da tennis».
Alla storia e alla Storia, nella vicenda del romanzo va aggiunto un ultimo elemento: la storia che seguì. A cinquant’anni di distanza, la casa di Santa Cesarea ha subito un nuovo, e definitivo, “assedio”, la vendita all’asta nel febbraio del 2012, nonostante le proteste, che pure non sono mancate, di artisti locali e personalità del jet set nazionale. Chi sa se, in quelle stanze,
l’ombra del Maestro non si sia riflessa ancora una volta nello specchio, vagamente sorpresa di scorgere, da lontano, le mezzelune di nuovi “turchi” – imprenditori, politici, intellettuali – affaccendati attorno alla villa.