(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, aprile 2017)
Al Festival del cinema europeo l’Ulivo d’oro alla carriera a Valerio Mastandrea, protagonista del cinema italiano impegnato e fuori dagli stereotipi
Mastandrea: «Affronto i miei film come persona prima che da attore»
Applausi per il cinema italiano impegnato, dissidente, quello “che non si basta” e continua a cercarsi oltre gli stereotipi d’immaginario. È questo il tributo che il Festival del cinema europeo di Lecce ha riconosciuto ieri alla carriera di Valerio Mastandrea, l’attore romano che ha interpretato molti dei migliori film d’autore degli ultimi vent’anni.
A lui, ieri sera, è stato consegnato il secondo dei sette Ulivi d’oro di questa diciottesima edizione, nel corso di un incontro al Cinema Massimo presentato da Laura Delli Colli. La cerimonia ha introdotto la proiezione di “Fai bei sogni” di Marco Bellocchio, la storia di una giovane mamma suicida e delle domande aperte del figlio. Ruoli difficili, quelli interpretati da Mastandrea, personaggi complessi, che si fanno portavoce di un’Italia “altra”, spesso ai margini, dal disoccupato di “Tutti giù per terra” che lo ha fatto conoscere al grande pubblico esattamente vent’anni fa, al meccanico di Ostia patito di corse automobilistiche in “Velocità massima”, dal borgataro rapinatore de “L’odore della notte” fino al padre della giovane sbandata in “Fiore”, il film per cui ha da poco vinto un David di Donatello come miglior attore non protagonista. «Ho sempre affrontato i miei ruoli prima come persona che come attore, e quando non l’ho fatto, li ho toppati – ha detto ieri mattina in un incontro con la stampa – la bellezza di questo mestiere è avere a che fare con il proprio bacino emotivo sempre da riempire e da svuotare. Nel momento in cui non ti sorprendi più, allora si eraurisce il principio attivo del cinema, e diventa solo un farmaco scaduto».
Voce impegnata e spesso fuori dal coro, Mastandrea si è misurato con esperienze diverse tra cui la direzione artistica, con Paola Cortellesi, del teatro Quarticciolo, presidio culturale nella periferia romana, o il contributo alla realizzazione di “Non essere cattivo” di Claudio Caligari, morto poco dopo la conclusione delle riprese. E anche ieri, Mastandrea ha colto il palco leccese per prendere posizione a sostegno della battaglia No tap. «Sono molto contento di ricevere questo Ulivo – ha detto – lo considero una delle massime espressioni di attaccamento alla propria terra. È una pianta che assume un valore simbolico molto forte anche in relazione alla battaglia che si sta conducendo qui in questi giorni. Le lotte sul territorio sono l’unica frontiera per recuperare il senso di appartenenza, senza per questo chiudersi agli altri e a chi a più bisogno, anzi allargando il confronto».
Le storie di periferia, di borgata ritornano spesso in ciò che fa.
«La periferia è un contesto in cui le emozioni sono meno filtrate, meno veicolate. In questo tutte le periferie del mondo sono uguali, da Lecce a Città del Messico, certo con le dovute differenze. Sono luoghi dell’anima in cui sei come sei, e in cui spesso è più difficile sopravvivere. Ma con questo non voglio neanche dire che in una condizione più benestante non si trovino persone capaci di sentimenti puri».
Qual è stato, in questi vent’anni, il personaggio che le è rimasto dentro?
«Sono molto legato a Stefano Nardini, il protagonista di “Non pensarci” di Gianni Zanasi. Rispunta, di tanto in tanto: ancora oggi io e Zanasi ci troviamo a dire “è successa una nardinata”».
Marco Bellocchio ha dichiarato a Cannes di averla scelta per la sua tristezza quando sorride. “Ride”, il suo primo lungometraggio da regista – in cui dovrebbe recitare Marco Giallini – forse non a caso si regge su questo filo.
«Non mi sento una persona triste, ma uno che trova nella malinconia un aspetto seducente. Del film non so ancora dire molto, non sappiamo se ci sarà Giallini, siamo un po’ in ritardo con il cast. Di certo è un film che mi riguarda tantissimo».
Per il film di Caligari si è spinto fino al ruolo di produttore. Come è stata quell’esperienza?
«Era stata una situazione limite, ho voluto cercare di mettere piedi questo film. È stato anche un modo per non rimanere fermo sul mio mestiere. Penso ad altre esperienze come la scuola Gian Maria Volontè, che è completamente gratuita. Altrimenti, d’accordo, avrò fatto 35 film e comprato due case, ma che senso ha?».
Il cinema americano non le interessa?
«Non sono capace di lavorare con gli americani, non per la lingua ma perché per il tipo di attore che sono e per come intendo il nostro mestiere non c’è posto per me in quella fabbrica di mostri, e con questo intendo di interpreti veri».
Sarebbe a dire?
«Spike Lee è il regista grazie al quale io vado al cinema: qualche anno fa faceva un provino in Italia, mi sono presentato. Faccio un monologo e lui mi dice “alza la voce, la rabbia del personaggio deve venir fuori”. Al che io gli rispondo “ma questo personaggio la rabbia ce l’ha dentro”. Lui era sconvolto, avrà pensato che fossi pazzo. Poi il film lo ha fatto Pierfrancesco Favino che è capace di fare qualsiasi cosa. Io, lavorando sempre in sottrazione, con gli americani non potrei proprio farcela».