(questo articolo è apparso con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia il 18 dicembre 2020)
Non tutti i mali vengono per nuocere, si direbbe a leggere “Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente” (Marietti Editore 2020), l’ultimo libro di Vito Teti, antropologo culturale, docente di antropologia culturale all’Università della Calabria, pilastro della teoria della “restanza”, da sempre attento osservatore del mondo dell’entroterra e dei piccoli paesi sull’orlo dell’abbandono. Un sentimento non certo piacevole, da sempre scacciato per l’aura di cupezza che porta con sé, addirittura medicalizzato, che lo studioso trova al contrario prezioso e generativo al tempo della pandemia che mette in discussione le certezze della contemporaneità, delle migrazioni e dei “legami liquidi”, per citare Bauman. Della complessità della nostalgia e delle risorse che possiamo trarne per far rinascere i territori Teti ha parlato ieri sera, nell’incontro online promosso dal progetto “A scuola per restare” dell’associazione salentina La scatola di Latta.
Un sentimento positivo, dunque?
«Il concetto di nostalgia nasce nel diciassettesimo secolo in un contesto medico-clinico,
come patologia dei soldati di ventura svizzeri lontani dai loro villaggi. A partire da fine ‘800 acquista una connotazione rivoluzionaria: si rivendicano alcuni modelli e valori del passato per criticare il presente. Dopo il periodo della modernizzazione, in cui essere nostalgico significava essere passatista, arretrato, conservatore, si sono sviluppati vari filoni di studi per i quali la nostalgia non guarda indietro, ma avanti. In alte parole, è una disamina di che cosa ci resta del passato, quali memorie, quali insegnamenti, che noi possiamo “usare” per verificare dove ci ha condotto il nostro presente. Sia chiaro: è il mondo del passato ad averci dotato degli attuali modelli di sviluppo, per cui non si tratta di rimpiangerlo, ma semmai di “riscattarlo”, andando a recuperare elementi preziosi come il rapporto con la terra, il senso del limite, così importante in un’epoca in cui avevamo finito per crederci immortali prima che una pandemia ci facesse precipitare in un abisso, il legame con i defunti che allena un sentimento di pietas per quello che è stato e la comprensione di non essere onnipotenti».
Lei si è molto occupato dello spopolamento dei piccoli comuni. Secondo l’ultimo Rapporto Istat sul territorio, tra il 2014 e il 2019 le aree interne hanno subito una riduzione della popolazione dell’1,8% a fronte dello 0,7% della media nazionale. Anche i piccoli comuni del Basso Salento perdono residenti, tra emigrazione e invecchiamento. La nostalgia può essere una spinta per combattere questo abbandono?
«Penso proprio di sì, perché l’uomo del passato, anche se nella fatica e nel dolore, aveva una conoscenza profonda dei luoghi in cui abitava, del rito delle stagioni, delle produzioni, di cosa poteva comportare un alluvione o una siccità. Noi stiamo perdendo non solo i piccoli paesi, ma anche il senso dell’abitare, ovvero di essere nel mondo, e questa è una questione che riguarda allo stesso modo, per esempio, chi vive nelle periferie delle metropoli. La “restanza”, lo “stare” in un luogo non è una scelta passatista, di conservazione, ma è anzi un “movimento del restare”, così come lo è il viaggiare. In questa scelta, però, è importante il senso di spaesamento: dobbiamo sentirci anche un po’ estranei, mantenere un atteggiamento critico, per dirigerci verso nuove forme di appaesamento».
Dagli anni Duemila in poi il Salento ha acquisito un’inedita attrattività turistica e una nuova immagine di sé, in qualche modo anche un “brand” legato al territorio. Che cosa pensa di questa evoluzione?
«Non ho mai condotto un’esplorazione etnografica nel Salento, ma ci sono stato con buone guide. Volendo parafrasare Ernesto de Martino, il Salento non è più la terra del rimorso, ma una terra in cui il rimorso è diventato elemento di rigenerazione. Chiaramente c’è anche il problema della gestione politica di questa crescita, dell’uso che se ne vuole fare, se come “rapina”, un “mordi e fuggi” da realizzare per piccoli interessi di facciata, come possono essere un festival che dura tre giorni e non lascia nulla, o le sole attrazioni per i turisti vacanzieri. Ma la domanda è: d’inverno questi bei luoghi come vivono? Le persone che fanno? La scelta di restare comporta una presenza costante sul territorio, un lavoro assiduo e inquieto, un esserci soprattutto nei periodi di vuoto».
La recente classifica sulla qualità della vita del Sole24Ore pone in coda alcune province calabresi, siciliane e pugliesi (la Bat è al 97esimo posto, Foggia al centesimo) nonostante il nuovo parametro del numero contagi da Covid19 influisca soprattutto sul Nord. Bari si attesta al 72esimo posto, ma Brindisi è all’86esimo, Taranto al 96esimo. Lecce, la provincia salentina con la performance migliore, è all’83esimo. Che ne pensa?
«Rispetto a questo tipo di classifiche, in cui le province del Sud sono sempre agli ultimi posti, un atteggiamento risentito e auto-assolutorio non paga. Come sosteneva Benedetto Croce, quando si afferma uno stereotipo la cosa migliore è domandarsi come questo sia nato. Dimentichiamo la mala politica, la mala sanità, le mafie, le devastazioni del paesaggio? Ciò detto, bisogna però anche in parte confutare i criteri e gli indici che vengono selezionati per misurare la qualità della vita: non è detto che il benessere così come viene inteso a Milano sia lo stesso di un piccolo paese del Sud. Chiaramente dobbiamo rivendicare servizi adeguati, buone strade, però si può anche ammettere che queste classifiche rischiano di ignorare dell’altro. Mentre le parlo sto passeggiando, c’è il sole, e ciò non mi crea affatto infelicità. Certo sbaglierei a dire che questo mi basta».