(questa intervista è apparsa su Immezcla.it, 21 settembre 2020)
«A scuola studiavo la Rivoluzione del 1789 e il potere di un popolo di tagliare la testa di un re, ma il mio libro di storia non parlava della guerra in Algeria. Non avevo gli strumenti per capire perché venivo da una cultura diversa, così come i miei compagni non capivano perché non ci assomigliavamo. La Francia ha ancora bisogno di un lungo lavoro di decolonizzazione». Camelia Jordana ha sempre il sorriso sulle labbra, un timbro di una dolcezza inconfondibile – del resto deve in parte alla sua voce la sua carriera d’artista, cominciata come cantante una decina d’anni fa – ma le sue parole sono chirurgiche. Sulla terrazza di un piccolo albergo nel centro storico di Lecce, uno Spritz messo da parte a beneficio dell’intervista, riconosciamo facilmente nella ragazza di 27 anni che siede davanti a noi il carattere del personaggio che si è affermato in Francia riuscendo a cucire il volto della cantante pop e dell’attrice in ascesa – premio Cesar come migliore promessa femminile nel 2018 – con l’impegno sociale che ne fanno una delle principali portavoce “locali” del movimento del Black lives matter. La scorsa settimana Jordana è stata ospite di Vive le cinéma, festival promosso da Apulia Film Commission e Regione Puglia che porta nel Sud Italia, a Lecce, una selezione di anteprime nazionali del cinema francese, e con questa anche lo “stato dell’arte” del dibattito sui principali temi d’attualità d’Oltralpe.
Camelia Jordana è l’unica ospite straniera di questa questa quinta edizione del festival che i direttori artistici Angelo Laudisa, Alessandro Valenti e Brizia Minerva definiscono «resiliente», realizzata in forma ridotta a causa della pandemia, ma che nonostante ciò ha goduto della conferma del pubblico con prenotazioni esaurite ogni sera. Anche quest’anno, l’universo delle migrazioni e dell’incontro tra culture è entrato prepotentemente nel programma del festival. Non stupisce, del resto, se si pensa che il Paese protagonista della manifestazione ha una popolazione costituita per circa il 12 % di persone nate all’estero secondo l’Eurostat. Oggi, ai temi “storici” legati al suo debordante passato coloniale si aggiungono quelli connessi ai recenti esodi del Mediterraneo comuni al resto d’Europa, che in Francia trovano spazio all’interno di un dibattito critico allenato, nel quale il discorso su un “loro” d’occasione si affianca, già da tempo, allo sguardo di un “noi” rivendicato in prima persona.
Tra i film proposti al pubblico leccese, “Papicha”, rivelazione della regista algerina Mounia Meddour al suo esordio nel cinema di finzione ma con una lunga esperienza maturata nel documentario. Scelto dal festival per il manifesto dell’edizione 2020, “Papicha” apre una finestra su uno dei Paesi coinvolti nella storia della colonizzazione francese, l’Algeria. Narra la giovinezza di una promettente stilista che si oppone, con le armi della leggerezza, al clima sempre più opprimente di una società radicalizzata e maschilista.
Crudo e toccante, nel racconto di un mondo parallelo nascosto tra le pieghe scintillanti della notte parigina, “La nuit venue”, il film d’esordio alla regia di Frédéric Farrucci che vede protagonista Camélia Jordana con Guang Huo. Con la storia di Naomi, finita nelle maglie della prostituzione, e di Jin, autista cinese senza documenti né denaro, ma con un enorme debito contratto con la mafia per il suo viaggio, il film attraversa il sottobosco di illegalità messo a servizio del grande sistema di taxi in subappalto, senza alcuna garanzia per i lavoratori, che trova un terreno particolarmente fertile nella nuova schiavitù degli immigrati irregolari. Un sistema che mette a rischio anche i clienti: una scena del film vede il protagonista, ancora sconvolto dopo un incidente, smontare la targa dell’auto e il simbolo della società in tutta fretta per poi dileguarsi.
«Viviamo in un momento storico in cui le conquiste sociali di Jean Jaurès e Léon Blum sono sotto assedio – commenta Camelia Jordana – Parigi, oggi, è piena di persone che vivono ai margini e non riescono a sopravvivere. Non dimentichiamo che è stato un governo di sinistra, quello di François Hollande, a parlare di “decadenza della nazionalità” (per i cittadini condannati per attività terroristica, ndr), mentre il Governo attuale spinge per “l’uberizzazione” del lavoro e quindi per la schiavitù di persone come quelle che vediamo nel film. Sono queste le tristi zone d’ombra della nostra società. Ma ci sono altre questioni che vanno anche al di là dei documenti».
Quali?
«Dopo una storia di colonizzazione è necessario un lavoro di decolonizzazione, non solo nel Paese colonizzato ma anche in quello colonizzatore. In Francia, questo lavoro non è stato fatto. Nella fibra del Paese ci sono ancora tracce della colonizzazione: nel razzismo di tutti i giorni, negli impedimenti che ostacolano la ricerca di un lavoro, di un appartamento, o l’avere i mezzi per crescere i figli, per studiare. Tra i migranti e, ancora, nelle seconde generazioni, in modo consapevole o inconsapevole c’è una grande rabbia, che deriva dalla percezione di non essere ascoltati né riconosciuti. Finché questo processo non sarà compiuto si continuerà a coabitare in questo Paese, ma respingendosi a vicenda».
In Francia, lo Stato tende a negare le differenze ammantandosi dietro una pretesa di universalismo culturale, dietro la quale, però, nella sostanza le discriminazioni restano.
«Sì, abbiamo una lunga storia di negazione. A scuola vedevo che ero diversa: c’erano soltanto cinque bambini arabi fra i quali mia sorella e io. Il mio libro di storia, però, non parlava della guerra in Algeria. Non avevo gli strumenti per capire perché venivo da una cultura diversa né perché ero nata qui, così come i miei compagni non capivano perché non ci assomigliavamo. È terribile per la mia generazione e per quelle più giovani, che sono cresciute in Francia, ricevere questo tipo di educazione dalla scuola francese, studiare Carlo V, Napoleone, la Rivoluzione del 1789, il potere di un popolo di tagliare la testa di un re che si adagia sui suoi privilegi, la Dichiarazione universale dei diritti umani che è stata proclamata proprio a Parigi, e poi subire queste forme di negazione. È proprio questo il lavoro di decolonizzazione necessario».
Eppure, la sua storia personale è l’esempio un’esperienza felice di realizzazione.
«Sono fortunata, perché sono cresciuta in una famiglia in cui l’arte e la cultura erano molto importanti. Da piccola, mia madre mi faceva ascoltare la musica e a volte piangeva per l’emozione. Sono fortunata anche perché è vero che i miei hanno vissuto una grande miseria, ma c’è stata poi un’ascensione sociale e io sono cresciuta in un ambiente piuttosto borghese. Questo background di storia familiare e personale mi dà la possibilità di mettermi in sintonia con un insieme vasto di interlocutori. È una grande fortuna che non capita a tutti i figli di migranti. Tuttavia, anche se non rappresento ancora la maggioranza, posso dire di non essere sola. Cominciamo anzi ad essere numerosi e ad avere visibilità nel mondo della musica, del cinema, dello sport, del giornalismo. Possiamo prendere la parola e mostrare che abbiamo un nostro posto, un posto che abbiamo guadagnato e che sempre più persone aperte e intelligenti sono pronte a condividere».