(questo articolo è stato pubblicato su Blogfoolk, 26 febbraio 2020)
«Lu mondë è troppo duro, io qui non c’ho futuro, mi han detto che in Australia la terra è bella. Si mangia e si lavora, i soldi sono buoni, e forse io qui mi sposo una paesana». Un classico del viaggio Oltreoceano nei più classici tra i versi cantati sulla banchina di un porto, o sui minuscoli letti a castello della terza classe per dimenticare il mal di mare. Ma questa “Tarantella dell’emigrante” nasconde in realtà una storia diversa. Le sue origini non si perdono nel gorgo del tempo, l’autore non è un vecchio bracciante con la pelle arsa dal sole, ma un expat degli anni Duemila. Che, pure, ha consumato le suole delle scarpe tra campi, contrade e piccoli paesi, ma con un registratore in mano al posto della vanga. E che attraverso le vite degli altri canta anche la propria.
Lui, Salvatore Rossano, etnomusicologo, dalle ricerche portate avanti tra Europa, Sud America e, oggi, Australia ha tratto pubblicazioni scientifiche ma anche il suo repertorio da musicista. Così è nato “Sonu. Songs from the Homeland” (2019), l’ultimo lavoro firmato da Santa Taranta, la band con base a Melbourne che omaggia chiaramente nel nome le origini salentine del fondatore (cantante e fisarmonicista del gruppo), ma che comprende anche la linguista australiana Hayley Egan (voce) e altri musicisti, chi di ascendenza calabrese, chi argentino.
Protagonisti del disco i “canti dalla terra di casa”, come recita letteralmente il sottotitolo, ovvero le canzoni riemerse dal fondo della memoria degli emigranti italiani grazie al certosino lavoro di Rossano, che ne ha recuperato le testimonianze registrate in Australia a partire dagli anni Settanta e conservate presso gli archivi della National Library e ha inoltre contribuito ad accrescere questo patrimonio incontrando anziani e discendenti di italiani di seconda e terza generazione, e in seguito ampliando il raggio della ricerca anche ai nuovi immigrati, soprattutto dall’America del Sud e dall’Africa, che oggi contribuiscono a riscrivere il sound della musica australiana.
Dalla seconda metà dell’Ottocento l’Italia ha dato origine a un importante flusso migratorio verso l’Australia, che ha visto una particolare concentrazione negli anni Cinquanta e Sessanta. Partiti soprattutto dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Campania, dal Veneto, dall’Abruzzo, oggi vi risiedono ufficialmente circa 140mila italiani, la metà dei quali nati in Australia (ma altre stime elevano di molto la popolazione con ascendenze italiane), come riporta lo studio “Giovani italiani in Australia. Un viaggio da temporaneo a permanente” pubblicato nel 2016 a cura della Fondazione Migrantes.
Tuttavia, come ha potuto appurare Salvatore Rossano, nella sfera pubblica della società e della cultura australiane i pur molti emigranti italiani si sono limitati a condividere un repertorio legato alla musica leggera, mentre i canti in dialetto, quelli appresi in famiglia, sono rimasti segregati nel chiuso delle memorie personali, spesso serrate a doppia mandata perché associati a una storia di umiltà e miseria che si è voluto dimenticare. A casa, però, di tanto in tanto la memoria forzava i lucchetti, ed eccola ricomparire in nenie di bambini, melodie allegre adatte al ballo, o nel suono di un organetto ritrovato in qualche vecchio baule.
Sono queste memorie a parlare nel disco, attraverso gli struggimenti dei mutos de amore sardi o il ritmo delle tarantelle, il classico “Mamma mia dammi cento lire” ma anche “Il valzer dei Marchese” e “La polka di Dora”, brani tradizionali riportati da Dora e Angelo Marchese, suonatori di Viggiano, marito e moglie conosciutisi da bambini imparando a suonare la fisarmonica e il mandolino da un maestro, di professione muratore, di un paese vicino. “La tarantella dell’emigrante”, però, Salvatore non l’ha ascoltata in casa d’altri.
«Ad ispirarla è forse la somma di tutte queste storie – racconta l’autore – è il percorso tipico di chi è arrivato in Australia: partito in cerca di fortuna, una fortuna che spesso è divenuta realtà. La connotazione positiva del pezzo corrisponde alle testimonianze che ho raccolto, molta gente veniva dalle campagne senza davvero niente in tasca e qui ha magari fatto due o tre lavori per volta, ma ha ottenuto quello che voleva: cose semplici, una casa, una famiglia da poter mantenere. Certo, l’aspetto negativo è la mancanza. E allora che fai? Recuperi un organetto e ti metti a suonare con gli amici del vecchio paese. Molti emigranti hanno fatto proprio così: dopo una vita di lavoro, solo una volta arrivati alla pensione hanno deciso di comprare uno strumento, magari prendendo qualche lezione, e iniziando pian piano a ricordare le canzoni di quando erano piccoli. Nel pezzo racconto la storia di un calabrese, ma la Calabria è solo una delle tante “terre di casa”, tant’è che nella versione live a volte sostituiamo “Calabria” con “Italia”».
Italia, Australia. Un approdo che può essere confortevole come stare nella pancia di un marsupiale, ma solo accettando di addentrarsi in terre sempre più lontane. Lo sa, Salvatore, che quella che racconta è anche la sua storia? Celata dietro la figura del mezzadro calabrese, non sembra un caso se i versi di questa tarantella non parlano la lingua dell’Aspromonte ma quella della sua Ostuni, il paese in Puglia in cui per primo è esploso l’amore per le musiche della tradizione. «Quando io avevo quindici, sedici anni però quasi tutti pensavano che suonare il repertorio tradizionale fosse qualcosa di seconda categoria, quasi un insulto alla musica. Io, però, non l’ho mai vista così e ho assiduamente frequentato la bottega di Tonino “lu marënarë”, che è stata la mia prima finestra sul mondo. A quel tempo studiavo al Conservatorio di Monopoli, suonavo il sax e il pianoforte, ma a questi ho iniziato ad affiancare il tamburello».
«Quando sono andato a studiare a Bologna – continua – ho avuto la fortuna di trovarmi in un periodo d’oro della città: a metà anni Novanta piazza Santo Stefano, via del Pratello, i centri sociali erano ritrovi fissi dei nuovi suonatori di pizziche e dintorni, magari rimescolate in vario modo improvvisando jam di tutti i tipi. All’Università ho conosciuto Roberto Leydi, che è stato davvero un grande intellettuale del Novecento, straordinario nella sua curiosità quasi da bambino, che ti investiva appena lo conoscevi. A me chiese delle pizziche di Ostuni e di quelle di Ceglie, fu anche un modo per approfondire il patrimonio della mia terra. Gli sono molto grato, come lo sono a Enrique Camara, che mi ha seguito nel dottorato in Spagna: mi hanno insegnato l’importanza di conoscere l’uomo nella totalità del suo ambiente culturale. Nel disco e ancor più nel live omaggiamo la storia delle persone che hanno conservato questi canti, riportando anche parte delle loro testimonianze».
La storia di Salvatore, oggi, dopo sette anni in Spagna prosegue da altri sette in Australia, tra Melbourne e il paese nel New South Wales in cui ha scelto di crescere i suoi bambini, quelli che vedo nella sua immagine profilo di WhatsApp con una canna da pesca in mano al bordo di un cristallino specchio d’acqua. «È uno dei motivi per cui resto qui – spiega – la natura ti parla in un modo selvaggio, potente, non c’è paragone con l’Europa. Noi siamo abituati ad un paesaggio molto più umanizzato. Quando ero piccolo, pensavo che stare nella natura fosse attraversare un uliveto… ma la diversità della flora e della fauna che puoi incontrare in una foresta preistorica è qualcosa di incredibile. Certo – commenta – cerco di tornare in Italia quasi ogni anno, voglio che i miei figli stiano a contatto con la mia famiglia e la mia cultura. Io? Come tutti gli emigranti, ho il cuore sempre a metà. Chissà, forse in Italia non sarebbe del tutto impossibile fare ricerca, ma dopo tanti anni fuori conosco i luoghi in cui ci sono le mie sicurezze e a cui voglio restare grato».
Così, chiusi i libri e riposto il registratore, a fine giornata anche Salvatore prende la sua fisarmonica, e si mette a suonare l’Italia.