(Questo articolo è stato pubblicato, in forma ridotta e con un altro titolo, su Nuovo Quotidiano di Puglia, febbraio 2016)
Silvia Calderoni. In MDLSX, l’ultimo lavoro dei Motus, è “testimone” di un’identità che non si rassegna ai confini di genere, nazionali o anagrafici
Contro il codice binario
«L’identità è una variabile infinita, un algoritmo impronunciabile». Può, un corpo nudo, parlare di confini geografici? Possono una barba e un urlo di donna divenire il manifesto di un’identità politica contemporanea, europea, “post-nazionalista”? Per MDLSX, la performance firmata Motus che approda domenica alle 18.30 ai Cantieri Koreja di Lecce, lo scavo nei generi sessuali offre il fianco a un’indagine aperta. Portavoce o “totem” – come è stata definita – del progetto, Silvia Calderoni, l’attrice premio Ubu che quest’anno segna i dieci anni di collaborazione con la compagnia romagnola, tra le più fertili, e inquiete, della scena teatrale contemporanea. Inquieta anche la ricerca di Calderoni. In lei, corpo fisico e corpo attoriale si fondono perfettamente lungo i tratti aguzzi che delimitano un incarnato di marmo e muscoli tempre tesi e pronti a scattare. Un corpo che, in sé, dichiara guerra all’immagine mainstream della donna; ma a fare la differenza è soprattutto la sua capacità di “innescarsi”, di mettersi in scena senza risparmio, contorcendosi di dolore o ballando al ritmo accelerato dei beat, nel dj set che chiude lo spettacolo.
“Motus”, non a caso, è il nome della storica compagnia fondata da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, da sempre devota a una ricerca che forza la soglia, un movimento continuo inteso come possibilità aperta.
Personale, politico e artistico fanno collisione in questa performance. In MDLSX, il salto oltre i confini dello stereotipo femminile è anche quello del migrante, dell’omosessuale, del non-adulto, di ogni “diverso” e, ancora, dell’uomo comune contemporaneo che non si riconosce nel proprio passaporto, in primis il cittadino europeo, che si vede erigere nuovi muri e confini in ogni direzione.
A partire da un solido background filosofico – dai manifesti queer di Judith Butler alle riflessioni sull’europeità di Rosi Braidotti – MDLSX è uno scavo nelle mille identità di mezzo che danno forma alle persone.
Il titolo dello spettacolo sembra evocare un “territorio di mezzo” dell’identità: che cosa vi trova posto?
«Il titolo che abbiamo scelto è volutamente criptico, è una sigla, può rimandare a molte cose, anche a un codice fiscale. Il tentativo è di renderlo innominabile e impronunciabile. Abbiamo cercato di aprire il più possibile ai rimandi, per scardinare l’abitudine a definire binomi: l’identità è sempre associata alla sessualità, al colore della pelle, al Paese di provenienza, alla religione, ma “identità” è una variabile infinita, è un algoritmo impronunciabile».
Lo spettacolo che vedremo ai Koreja coagula un percorso “liquido”, transitato per festival e residente teatrali, da Sant’Arcangelo di Romagna al teatro-dimora L’arboreto di Mondaino. Quanto peso ha avuto il pubblico nell’elaborazione di questo lavoro?
«Qualsiasi progetto affrontato con Motus non si presenta come “prodotto”, è un materiale che rimane vivo. Teniamo aperta la possibilità in corso d’opera e di tournée di modificare, riassettare: questa è una caratteristica delle cose vive, che sono sempre mutevoli, e del resto è una caratteristica del teatro, nonostante spesso lo si concepisca come meccanismo diabolico di ripetizione. Con MDLSX molto spesso il pubblico rimane fuori dalle sale, non c’è un “consumo” immediato che porta a chiudere sbrigativamente il capitolo, si crea una sorta di microcomunità, e questo influisce anche su di noi. Proprio per questo a Lecce alla fine dello spettacolo ci sarà il mio dj set, che è un modo per restare all’interno dello stesso discorso, attraverso un formato diverso. Sono molto felice di essere a Lecce: ormai è sempre più raro riuscire a portare spettacoli di un certo tipo a Sud di Roma, e questa è una grande mancanza anche per gli artisti che non possono farsi contaminare da chi vive al Sud».
Per la prima volta firmi la drammaturgia, insieme a Daniela Nicolò. Che cosa porti di “Silvia” in questo spettacolo?
«Il tentativo è stato quello di intersecare la mia personale biografia con altre biografie. Sicuramente c’è una gamma di emozioni che proviene da pezzi della mia vita, ma è comunque un lavoro teatrale, non metto me stessa sul palco, anzi, sono attrice nel momento in cui recito me stessa. Con Motus il lavoro è sempre orizzontale: la scrittura drammaturgica comprende anche la regia, le immagini video, le luci, il corpo, tutto si intreccia e va a comporre la scrittura».
Mentre prosegue la vostra tournée, in Parlamento la legge sulle unioni civili dopo mesi di dibattito non ha ancora visto la luce. Una distanza tra il Paese reale e chi lo rappresenta, o tra due Paesi Italia, oggi?
«Anche in questo caso, le posizioni, come le identità, hanno migliaia di sfumature diverse. Certo è che è come se avessimo fatto cinquanta passi indietro se mi trovo a dover prendere posizione su qualcosa che mi sembra acquisita. Invece che approfondire il discorso sull’identità, di superare anche il gioco dell’uguaglianza per ribadire una diversità sana, feconda, ci appiattiamo su un livello molto basso.
La verità è che, in generale, non ci rendiamo conto che il presente è già da un’altra parte. Oggi popoli interi si stanno spostando sulle terre in cui abitiamo, e noi ci ostiniamo a voler trattenre le cose così come sono,non riusciamo ad accettare la realtà. È un momento di grande stallo e decrescita culturale».
La tua nudità in scena rimanda alle storiche performance “politiche” del Living Theatre, di cui nel 2011 hai incontrato la fondatrice, Judith Malina. Quanto porti di quel teatro nelle tue performance?
«Per me la nudità è un elemento che posso mettere in campo in quanto portatrice di un corpo molto androgino, che quindi porta in sé anche una grande domanda sul maschile e sul femminile. Però questo deve avvenire all’interno di una scrittura, deve essere “giustificato”. E questo è anche l’insegnamento di Judith: quando ci siamo incontrate, mi ha detto “prova a farlo a settant’anni, e vedrai come lo gestisci”: una portata ancora differente».