(Questo articolo è stato pubblicato con un altro titolo su Nuovo Quotidiano di Puglia, agosto 2016)
Castelli/1
Il Carlo V di Lecce. Il mistero dell’orso, il fantasma di Gian Giacomo dell’Acaya, le mostre d’arte contempoeanea
Una bambina punta lo smartphone verso un Andy Warhol altrettanto “armato” di obiettivo. Marito e moglie in shorts sgranano gli occhi davanti al tripudio fiorito che dà accesso alla Sala del trono. Un ragazzo fissa lo sguardo lungo il pavimento sconnesso dei sotterranei, perso nel dubbio che lì possa essere vissuto davvero un orso, o chissà cos’altro. Castello Carlo V di Lecce, un pomeriggio di metà agosto. Triplicati rispetto al solito afflusso, complice il poco sole che distoglie dal mare, turisti provenienti da ogni dove sembrano viaggiatori del tempo dentro un enorme star gate aperto su più epoche. Lungo le possenti pareti fortificate le tracce del “jet set” nobiliare transitato da qui, dentro, le opere d’arte contemporanea ospitate in più mostre, sottoterra il mistero umido del “dietro le quinte” del castello.
Al Carlo V si può arrivare per un motivo, restarci per un altro. Ogni cosa si presta alla sorpresa, persino il suo nome: il grande imperatore a cui si deve la fortificazione del complesso medievale, per la verità qui non ha mai messo piede.
C’è stato invece, e a lungo, Gian Giacomo dell’Acaya, architetto militare del Regno noto anche per la fortezza omonima in agro di Vernole. Carlo V lo inviò a Lecce per rendere il vecchio castello a prova di armi da fuoco, e l’ingegnere vi costruì intorno mura potenti collegate da quattro bastioni (a farne le spese fu la prima Basilica di Santa Croce, abbattuta e ricostruita nella posizione attuale) e trasformò il fossato in sotterranei utili a ospitare centinaia, se non migliaia di soldati. Il traffico pullulante della funzione militare finì per sostituire il mistero del vecchio fossato, in cui si diceva che al tempo degli Orsini del Balzo vivesse un enorme animale, forse un orso, in omaggio alla casata. E ancora più tardi, a partire dal 1870, quando i militari si trasferirono ai “piani alti” con il complesso castellare divenuto una caserma, dei sotterranei si fece un’enorme discarica.
Epiloghi prosaici come questo sono comuni nella storia secolare dei castelli, come non mancano mai quelli tragici. Per il Carlo V, lo sfortunato protagonista fu proprio Gian Giacomo dell’Acaya. Il suo genio non bastò a salvarlo dal rigido controllo dell’impero: fece da prestanome per un conoscente che non onorò il debito contratto e per questo finì i propri giorni nelle prigioni del castello. Da allora, si dice che non se ne sia più andato. «Per chi ci crede, si diverte ad aprire e chiudere le porte – racconta Donatella Zuccaro, la guida che conduce il gruppo dei turisti lungo le gallerie sotterranee – per chi non ci crede è solo la distrazione degli addetti ai lavori». E chissà che non ci sia anche la firma di Acaya tra i mille graffiti che segnano come un enorme diario o un testamento su pietra le pareti delle prigioni. Navi, scale, volti, nomi e soprattutto scudi con stemmi: ricordi di battaglie e vecchie glorie per lasciare traccia di sé oltre l’ombra eterna della cella. Per ora, in attesa che vengano ultimati i lavori di restauro del complesso, non resta che sporgere appena il mento oltre la porta d’ingresso e provare a indovinare.
C’è spazio per il sogno, invece, nella Sala del trono intitolata a Maria d’Enghien. Dal grande salone transitarono nobili e diplomatici ai tempi delle intricate storie di matrimoni e potere della contessa e regina, prima sposa di Raimondello Orsini, poi di Ladislao I d’Angiò. Oggi ospita conferenze e mostre, come le altre sale al primo piano. Fino al 25 novembre, il nuovo “imperatore” del castello è Andy Warhol, con i suoi volti ipermoderni che occhieggiano tra le mura in pietra.
Stesso cortocircuito nella Torre Mozza, pochi gradini sotto la Sala del trono, con le sue volte tardogotiche, una nicchia secentesca da cui appare una delicata Pietà e, intorno, lo shock cromatico dei dipinti di Ercole Pignatelli, in esposizione permanente al castello.