Absolutely Nothing, l’ultimo libro di Giorgio Vasta, è un reportage di viaggio attraverso ghost town, musei di relitti e altri luoghi dell’abbandono. Autobiografia e immaginario cinematografico convivono per dar forma a un irripetibile “autentico”
“Absolutely nothing – next 22 miles” avverte perentorio un cartello a Barstowe, California, sulla strada che collega Los Angeles a Las Vegas. Davanti, lo spazio sterminato del deserto americano. Lo scrittore Giorgio Vasta e il fotografo Ramak Fazel lo hanno attraversato andando a cercare ghost town, musei di relitti e altri luoghi dell’abbandono per raccontare la storia «che non ha nulla di macabro, ma è anzi vitale» dell’atto dell’andarsene. “Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani” (Quodlibet-Humboldt) è il libro fotografico che riassume il succo di quell’esperienza. Il niente, l’assenza, il vuoto, o meglio la “mancanza”, ciò che è stato e non è più è l’enigma attorno a cui sfreccia la jeep di Vasta e Fazel.
Una mancanza che via via si presta a raccontare la storia peculiare degli Stati Uniti, cresciuti sulla prassi della dismissione, o il ritmo inceppato del tempo presente che corre veloce e fagocita se stesso, o ancora l’esperienza esistenziale della perdita, che lo scrittore indaga recuperandola dalla propria biografia. Del resto, l’uso della prima persona è una costante nella scrittura di Vasta, e il cortocircuito con la dimensione autobiografica è comune ad altri lavori, come il reportage palermitano “Spaesamento” (Laterza). Ciò che conta al termine del viaggio, avverte Vasta, non è indovinare la corrispondenza al referente, quanto lasciarsi portare dallo sguardo: è quello, il vero piano di autenticità su cui si gioca la storia.
Dopo l’incontro di ieri alla Biennale di Bari, il tour pugliese di “Absolutely nothing” prosegue, oggi, alla libreria Il ghigno di Molfetta, e si conclude domani alla libreria Luna di sabbia di Trani.
Perché, tra tutte le direttrici possibili, il suo viaggio americano ha seguito quella dell’abbandono?
«Credo sia una curiosità nei confronti delle spoglie, delle vestigia, che però non ha nulla di macabro: anzi, riconosco qualcosa di vitale nell’atto dell’andarsene».
La dismissione sembra essere l’immagine per eccellenza degli Stati Uniti.
«Senz’altro c’è una sorta di ritmo che lega i luoghi che abbiamo visitato: la relazione tra “rise” e “fall”, crescita e caduta. Gli Stati Uniti sono in gran parte connotati da questo alternarsi di momenti di espansione, di arricchimento – per fare un esempio, l’inaugurazione di una miniera di tungsteno in qualche angolo del Texas – a cui segue la dismissione e l’abbandono. Nel mezzo, la nascita di villaggi nel cuore del deserto che sembra quasi una forma di provocazione, una performance involontaria».
Nelle prime pagine del libro si augura di compiere «un viaggio di soli fenomeni e stupore», ma in realtà ogni fenomeno le giunge come un segno portatore di significato. C’è un fenomeno-segno capace di riassumere l’intera sua esperienza negli Stati Uniti?
«Il segno che probabilmente più s’impone, allo stesso tempo nudo, essenziale, letterale e insieme metaforico è la linea orizzontale. L’omogeneità, la spietata piattezza dello spazio che abbiamo attraversato dava la percezione di correre sul posto restando immobili, come su un tapis roulant.
Credo che la contemporaneità sia segnata da una percezione di questo tipo, in cui il tempo è senz’altro reale ma è anche una sorta di continua citazione, scorre ma sembra essere immobile»
Quali testi sono stati importanti nella sua conoscenza degli Stati Uniti?
«Certamente “America” di Jean Baudrillard, “Odore d’America di Goffredo Parise, in cui molto bella è l’informalità della scrittura, “America” di Kafka, ma anche altri, come “Deserti americani” di Reyner Banham, “Leggende del deserto americano” di Alex Shoumatoff, “La scoperta dell’America” di Cesare Pascarella. Ho pubblicato la mia biblio-filmografia completa sul sito di Humboldt Books».
“Absolutely nothing è in realtà absolutely nobody”: lo spazio vuoto finisce per specchiarsi nella fine della sua storia d’amore. Quale contributo dà al suo lavoro la dimensione autobiografica?
«Nelle prime fasi di scrittura di questo libro mi sono reso conto che non mi interessava per niente realizzare un reportage sui luoghi. Peraltro io non ho nessun titolo per dire qualcosa sugli Stati Uniti. L’unica cosa che avrebbe potuto avere senso sarebbe stata mettere il viaggio a servizio della mia storia personale, cercando di non cadere nell’autoreferenzialità.
Lo spazio nordamericano, i deserti, l’abbandono, lo sradicamento coincidono con il venir meno del mio tentativo di radicamento. Del resto, credo che non esista azione narrativa che non sia autobiografica, seppur per gradi diversi di riconoscibilità del materiale autobiografico».
Lo scorso ottobre è tornato negli Stati Uniti. Qual è stato lo scarto rispetto al viaggio di tre anni fa?
«Dopo il nostro primo viaggio, negli ultimi tre anni Ramak Fazel è diventato un personaggio del mio libro. La cosa incredibile dell’ultimo viaggio è stata sentire Ramak, che non ha mai letto il testo, dire cose che io avevo fatto pronunciare al personaggio Ramak. In un certo senso, mi sono sentito sollevato».