(questo articolo è stato pubblicato su Immezcla.it, 25 novembre 2020)
«Scavalcando recinzioni puoi raggiungere i tuoi sogni / Devi abbattere quei muri se vuoi costruire ponti / Le parole quelle giuste che non lasciano ferite / Come cure per lottare e migliorare queste vite». Sono i versi del rapper Amir Issaa a fare da portavoce del RIM Junior 2020 della Fondazione Migrantes (Tau Editrice) presentato questa mattina al Festival delle migrazioni. Un volume, scritto da Daniela Maniscalco, pensato per parlare della mobilità italiana ai più giovani, con l’obiettivo di accrescere il loro bagaglio di conoscenze sull’argomento ma anche – forse soprattutto – come strumento di riflessione sul tema più ampio dell’incontro tra culture.
«Non un “rapporto” (come indurrebbe a pensare il prestito della sigla dal RIM originale), ma un “Racconto degli italiani nel mondo”, un viaggio sulle orme di chi è partito ieri e di chi parte oggi, tra concetti essenziali e storie di vita che danno un nome e un volto alla teoria. E però – è questa la specificità del Rim Junior – l’itinerario attraversa anche il Paese abitato dai “nuovi italiani”, che con gli italiani di nascita condividono una lunga storia di migrazione».
A fare da trait d’union nell’edizione 2020 il focus sugli stereotipi, che mette in luce le dinamiche comuni a ogni cultura e società nella costruzione del giudizio sull’altro, più o meno intrecciato al pregiudizio. La mobilità italiana diviene quindi un veicolo per riflettere su questioni scottanti, ancora tristemente attuali.
«Un tempo gli immigrati eravamo noi – scrive il direttore della Fondazione Migrantes don Gianni De Robertis – e quelle stesse offese, oggi nella maggior parte dei casi superate, sono rivolte ad altri che si trovano a vivere le difficoltà di chi si spostava dall’Italia un tempo»
«La mobilità umana globale da positiva e arricchente è diventata moneta di scambio di voti elettorali – si legge nell’introduzione di Delfina Licata, curatrice del Rapporto italiani nel mondo – e così, facendo leva sull’innata paura dello straniero come predone, si è iniziato a vedere il ripiegamento di alcuni Stati su se stessi, chiusure di confini e alzate di muri. L’Italia non è stata da meno e oggi vive da protagonista questa spaccatura culturale e identitaria tra accoglienza e rifiuto, tra apertura e chiusura, tra l’essere sempre più terra di partenze (anche degli stessi immigrati divenuti cittadini italiani o no) e luogo di approdo (primo approdo per essere precisi)».
Da queste riflessioni prende corpo la linea editoriale del volume: la storia degli italiani all’estero («I “quasi bianchi” alla conquista degli States», «Gringos, carcamanos e papolitanos: gli italiani e l’America Latina» e così via) ma anche un continuo dialogo tra italiani e non, un salto tra punti di vista diversi che tenta di scardinare quella fermezza di posizioni tra “ingroup” e “outgroup” secondo cui, rilevano gli studi di sociologia, “il mio gruppo è sempre il migliore”.
Il testo, scritto in modo chiaro ma mai banale, è ricco di esempi che accompagnano parole quali «razzismo», «derisione», «terrone», «segregazione», estrapolate dal vocabolario e poi andate a cercare, a ritroso, nelle vicende reali della storia e della contemporaneità. Approfondimenti ricchi di distinguo, come nel capitolo sulle mamme italiane, che accanto ai cliché sui nostri “mammoni” riporta le voci mainstream nel 1800, secondo cui le mamme italiane erano al contrario frivole, dedite alle feste e poco interessate ai figli. Certo, è vero pure che queste voci coinvolgevano le donne delle classi privilegiate, precisa l’autrice in uno dei numerosi rimandi al “metodo” del giudizio e alle dinamiche della categorizzazione, che sono poi i veri protagonisti del volume.
Agli stereotipi è dedicato anche il capitolo sugli insulti legati alle diverse tradizioni alimentari (italiani «mangiaspaghetti», tedeschi «mangiacrauti», francesi «froggies», mangiatori di rane, come venivano chiamati dagli inglesi, e inglesi «rosbif», in un reciproco scambio di cordialità). E quello sulle barzellette: esiste un confine sottile, mette in guardia il testo, tra sorridere e irridere. E però in questo gioco di tutti contro tutti, secondo uno studio accademico, gli italiani si distinguono positivamente come «campioni di autoironia».
A questo approccio si deve anche il coinvolgimento di Amir Issaa, rapper di grande successo soprattutto tra le generazioni più giovani, figlio di padre egiziano e madre italiana i cui brani – si pensi a “La mia pelle” o al più recente “Non respiro”, realizzato in collaborazione con David Blank e Davide Shorty, chiaro riferimento a George Floyd e al movimento del Black lives matter – sono spesso attraversati da temi quali discriminazione, razzismo, seconde generazioni.
Un “racconto degli italiani” in cui si fa largo, per riflesso, l’Italia che cambia.