(Intervista inedita, gennaio 2016)
Mario Perrotta, premio Ubu 2015, ha legato la propria opera a un impegno militante a favore degli ultimi, le “propaggini estreme” dei sistemi umani, al di là di astrattezze e retorica
L’atto politico del corpo in scena
Punto d’origine e destinazione ultima del vario transito dei sistemi culturali, il corpo è, sempre, materia politica, territorio in cui si realizza l’immemore negoziato tra uomini e donne, individui e comunità, cittadini e potere. Ogni cosa, spogliata delle costruzioni retoriche dell’umano, si origina nei lembi del corpo, e al corpo ritorna. Ben prima che il popolo delle femministe rivendicasse il portato politico dell’amore fisico, delle gravidanze, delle fatiche private, la “biopolitica” messa in atto dalle dittature rivelava la consapevolezza immemore di questo assunto. La suggestione abbagliante di migliaia di corpi in schiera, tenuti insieme come molecole di un’unica sostanza, o ancora la trasformazione operata sulla forma stessa del corpo da parte dei luoghi di contenimento, gli “Asylums” di foucaultiana memoria, ne sono alcuni esempi.
Quali sono stati i luoghi terminali della politica nell’anno funesto 2015, se non il corpo di Aylan, bambino, verticale e vivo, trasformato in un fagotto supino sulla sabbia, e di migliaia di altri come lui, quali, se non la carne esplosa dei kamikaze, se non quella trafitta da parte a parte dei giovani francesi del Bataclan, se non quella schiacciata dalle macerie dei cittadini siriani, oltre ogni retorica, oltre ogni manifesto politico?
Ne abbiamo parlato con Mario Perrotta, pluripremiato attore e regista teatrale (ultimo, l’Ubu 2015 per il Progetto Ligabue), che ha fatto della messa in scena del corpo il proprio atto politico. Continua