«Mi ricordo bene quando ne parlammo. Ci siamo incontrati per caso al Dada, un club teatro a Castelfranco Emilia, a metà strada tra Bologna e Modena. Doveva essere un concerto di Philippe Glass. Scrivevamo entrambi su «Rockstar», io di musica, lui teneva la rubrica «Culture Club». Mi raccontò di questo suo reportage. A quel tempo collaboravo con «Lei», che in seguito sarebbe divenuto «Glamour», e lì avevo pubblicato un articolo – lo ricordo perché fui preso in giro dai miei amici leccesi – che si intitolava, un po’ provocatoriamente, Lecce come Berlino. Naturalmente, Berlino era molto di moda, Lecce invece non se la filava nessuno. Eppure non era uno scherzo, io ci credevo davvero nella creatività leccese, ecco perché consigliai a Pier di andarci. Gli diedi indicazioni, allertai le persone che lo avrebbero guidato. Sì, fui io a dirgli che avrebbe trovato a Lecce quello che stava cercando».
Pierfrancesco Pacoda è già al bar della Sala Borsa quando arrivo spettinata, reduce da una corsa in autobus e da una multa staccata all’ultima fermata. Lui sorride, nella sua t-shirt bianca con un logo che sembra disegnato a pennarello, non si scompone per il ritardo, ha sistemato un pezzo per «Il Resto del Carlino», nel frattempo. Trasalisce solo quando, candidamente, gli confesso che io non lo conosco, il fumetto della t-shirt. Mi sento un’anziana di provincia a confronto con i suoi quarant’anni a Bologna. Fai un’altra scuola, quando cresci al Livello 57, al Link e tra le posse dell’Isola del Kantiere, che hai visto nascere e hai trasformato in qualche migliaio di battute, decine di volte, per raccontarle. Se sei andato via dalla provincia ma a diciotto anni eri già abbastanza adulto da non barattare l’unicità di quella fame di voi ragazzi con un sogno rampante, seppure in salsa freack. Se sai fiutare i tuoi riferimenti dove le cose si fanno, e dove ancora non hanno un nome, perché sarai tu a darglielo. Se non ti senti provinciale. Esattamente come Pier. Lecce come Berlino, è partita così.
Alberto Giorgino e Toni Robertini furono i suoi agenti in zona. Non a caso: l’uno studiava a Pisa, l’altro s’era laureato in Filosofia a Urbino, e facevano parte del popolo che calava a casa una volta al mese per piazzarsi in assemblee e concerti all’Università di Lecce, importando long playing e programmi radio. Tra andate e ritorni, Toni aveva anche fondato i Band Aid, il gruppo che – narra il mito – si era inventato il primo album autoprodotto della storia della musica italiana.
Pier era arrivato in treno una mattina di inizio giugno.
«Non è che avesse un tema – racconta Alberto Giorgino congedandosi per un quarto d’ora dal bibliotecario che è oggi, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università del Salento – telefonò a casa mia che era già a Lecce. Chiesi a Toni: Dove portiamo Tondelli? Allora a chiunque venisse da fuori, si faceva fare il tour turistico-culturale-cazzone lungo la litoranea adriatico-jonica in un solo giorno, senza aria condizionata. Non c’era altro modo. L’idea era di andare a zonzo liberamente per i luoghi che frequentavamo, del resto non era questo il criterio di Pier? Il primo appuntamento fu piazza Mazzini. Ah, già, il “salotto sudamericano”».
Negli anni Sessanta, se compravi casa a Piazza Mazzini qualcuno avrebbe ghignato, stretto tra i denti, «sta costruendo tra le pecore». Non c’era che un fuori porta allo stato brado, quando il Piano regolatore del ’34 aprì il varco alla conquista di quel far west, ed esattamente come nelle steppe americane, virili costruttori a cavallo segnarono i confini di maschi palazzoni che divorarono il cielo pezzo a pezzo. E solo più tardi, molto più tardi, si pensò ad accudire la vita ordinata da quella sorta di eiaculazione costruttoria. Non c’erano bagni tra le pecore, gli alberi furono divelti per lasciare spazio agli appartamenti di bancari, avvocati e commercianti. Restarono una teoria desolata di palme e due aiuole.
«Un salotto sudamericano, così ci sembrava, tra quelle palme e le ombre lunghe dei palazzi. O una sequenza di Deserto rosso di Antonioni». Eppure anche i giovani leccesi, a proprio modo, fecero casa lì.
«C’erano i bar, era quello il riferimento. E due aiuole, fondamentali le aiuole». Pennarello e taccuino presi in prestito, Mauro Marino traccia la propria mappa con una precisione giapponese. Prima del Fondo Verri, che dirige da un ventennio, prima di entrare nella crew del Teatro Valdoca, e prima ancora di condividere con Toni Robertini la stagione dell’Università a Urbino, c’era stata piazza Mazzini. «Questa è la piazza, questa via Trinchese, questa via Oberdan. Il Bar Poker era nell’angolo, qui c’era il Bar Roberto, e il Bar Prato, sotto la galleria. Il Raphael era figo, lo frequentavano i più grandi. Sì, c’era pure l’Arnolds, il ritrovo dei paninari, una sorta di Mac Donald ante litteram. È cominciato tutto intorno all’aiuola che dava su via Trinchese. Perché? Era un ottimo sgabello, ci si sedeva sul bordo e si stava. “Che facciamo stasera? Che facciamo domani?”: alla fine si rimaneva là, sull’aiuola. Poi è arrivato il tempo in cui ci è spostati sull’altra, vicino al Bar Roberto. Un passaggio di storie».
Un po’ hippy, un po’ freack, di sinistra di sicuro, chi ortodosso, chi non praticante, il gruppo della prima aiuola. L’eroina mischia le carte, e ci si ritrova a condividere il bordo persino con i fascisti, là, non lontano dal Bar Poker. Un popolo di ragazzi affamati come dieci anni prima, ma con gli occhi gialli, si mescola nel gorgo degli altri, a piazza Mazzini. Tutti sulla stessa giostra, ognuno a proprio modo.
(Fotografie di Daniele Coricciati; qui il testo pubblicato su Nazione indiana)